Peppina |
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Lei e Giulio non si vergognavano di fermarsi a mangiare quando si presentavano inaspettatamente all'ora di cena e venivano invitati. Durante gli abituali incontri serali era molto più spesso ospite, meno padrona di casa; era l'unica donna a giocare a carte e accettava di buon grado di essere la quarta gio-catrice quando veniva invitata al tavolo dagli uomini. Le altre donne l'accettavano così com'era, inoltre compensava i suoi difetti con la grande generosità, portando piccoli pacchetti con prodotti da forno o di gastronomia e comprando bei regali in occasione dei compleanni dei bimbi. Tutti si rendevano conto che probabilmente il suo modo di essere dipendeva dal fatto che lei e Giulio non avessero figli, perciò godevano di una maggiore libertà e vivevano in modo diverso. Peppina era un'inguaribile romantica, leggeva i romanzi a puntate sul settimanale ^Italia e ascoltava i drammi radiofonici all'emittente italiana in cui recitavano i famosi Vladimiro e Argentina Brunetti. La sera, quando io e la mamma camminavamo per otto isolati in salita per raggiungere la casa di Peppina, le sentivo parlare degli ultimi episodi, ma la conversazione immancabilmente finiva sul loro lavoro, la fabbrica dove cucivano, la Levi-Strauss di Valencia Street. Quando parlavano di lavoro, la parola più frequente era bandoli, l'italianizzazione di "bundles" ovvero dei fasci: un fascio corrispondeva a tre dozzine di jeans, l'unità di lavoro con la quale erano pagate."Quanti bandoli hai cucito oggi, Maria? "chiedeva Peppina. "Non abbastanza. Quella bastarda di Jesse ha preso solo quelli corti mentre noi eravamo a pranzo". |
Quando mia madre si era trovata di fronte Jesse ("quella russa"} l'aveva sentita borbottare "Dannata dago". Con rabbia, brandendo delle forbici che per caso aveva in mano, Maria le aveva urlato "So cosa significa dago, non provare a chiamarmi così". Peppina si divertiva a raccontare l'accaduto. "L'hai davvero spaventata, Maria". All'inizio degli anni trenta, quando mia madre lavorava alla Levi-Strauss, io andavo con lei in quelle che per me erano avvenimenti rari e speciali. Ricordo che a mezzogiorno in punto le macchine si spegnevano fino esattamente alle dodici e trenta. Quel fragore assordante cessava e durante l'esodo verso la mensa al piano di sotto, si potevano percepire i rumori comuni come un sollievo che quasi turbava: le voci, il fruscio dei contenitori per il pranzo e delle borse, il rumore dei passi. A mezzogiorno e mezzo ognuna era di nuovo alle propria macchina ad attendere che si riaccendesse e il frastuono ricominciava. Alle cinque in punto tutte le operaie uscivano e correvano ad aspettare i tram. Peppina solitamente trovava Giulio ad attenderla galantemente nella sua Modello-A a due posti sul marciapiede dove l'aveva lasciata la mattina, prima di dedicarsi alle proprie attività. Lui non ebbe mai un vero impiego, non lo vidi mai con la tuta da lavoro che indossavano tutti gli altri paesani. Si diceva che giocasse molti soldi al campo di bocce e che aveva degli investimenti nel mercato azionario. Nella stagione della raccolta dell'uva guadagnava facendo il mediatore: girava i vigneti e selezionava le uve per i suoi amici che producevano vino. Si mormorava che fosse molto avaro e che fosse la moglie ad accollarsi la maggior parte delle spese di casa. |
Era un bell'uomo, di media altezza, portava baffi alla Errol Flynn e fumava i Toscanelli, i grossi sigari arrotolati a mano della Petri. Era sempre molto curato, o addirittura elegante e molto vanitoso, proprio come Peppina. Con la stessa intensità con la quale Giulio aveva la predisposizione all'avarizia, Peppina l'aveva alla generosità. Ho due gioielli che lei mi donò quando ero piccola: un anello e un ciondolo di ametista decorato con filigrana d'argento e un piccolissimo diamante. Durante la mia adolescenza mi regalò molta biancheria ricamata per il mio corredo da sposa. Quando, molti anni dopo, le chiesi un ciondolo personale da appendere al mio braccialetto, lei mi donò la spilla d'oro che le fu conferita dalla Levi-Strauss per i suoi venticinque anni di servizio. Da piccola mi capitava di passare l'intera giornata a casa sua e, malgrado queste occasioni fossero rare, mi sentivo molto più a mio agio con lei che con i vicini che si occupavano di me regolarmente. Peppina mi lasciava giocare con il suo fard e il suo profumo e passava tanto tempo con me, facendomi sentire che lo stare insieme era importante per entrambe. "C'è un nuovo film di Shirley Terapie, andiamo a vederlo domenica, io e te". Prendevamo il tram che ci portava in uno dei teatri di Market Street, dove proiettavano anche tutti i film in prima visione. Poi Peppina mi portava alla Caffetteria Clinton, proprio lì vicino. |
L'esperienza di andare in un ristorante (non da un gelataio del nostro quartiere per un cono, ma in un vero ristorante in città) era molto più emozionante della gamma di torte e dolci tra cui potevo scegliere. Il tempo fu più clemente con lei che con Giulio, che divenne improvvisamente vecchio quando entrambi avevano quasi settant'anni. "Povero Giulio" diceva lei quando le crisi del marito diventavano ossessive "è diventato pazzo a furia di contare i soldi". Lei si prese cura di lui per anni, rifiutando qualunque suggerimento di trovargli un posto dove lo potessero assistere; quando si affrettava al negozio all'angolo, lo lasciava seduto sulla soglia mentre lui le urlava: "Mamma, mamma", fino al suo ritorno. Un giorno accese un fuoco con i quotidiani, proprio al centro del seminterrato. Una notte scese dal letto, prese una delle sue scarpe e vi orinò dentro. Peppina alla fine fu costretta ad arrendersi "perché il mio cuoricino non può più reggere" e lo fece internare al Centro igiene mentale Agnews. Lo andai a trovare una volta, e lo vidi avvizzito e curvo mentre giocava con un oggetto inesistente che credeva di tenere tra le mani e parlava da solo. "Poverino" disse lei mentre le lacrime le scendevano lungo le guance e lo accarezzò e gli mise in bocca, uno per uno, tutti gli acini del grappolo d'uva che gli aveva portato. Peppina andò in pensione dopo aver lavorato per ventisette anni chiusa in una stanza che conteneva file e file di macchine da cucire. Per gli ultimi vent'anni della sua vita, portò apparecchi acustici e una coloratissima sciarpa intorno al collo per nascondere i fili collegati alle batterie. Durante gli ultimissimi anni della sua vita era così sorda che quando la chiamavo non riuscivamo ad avere una conversazione telefonica normale, nonostante utilizzasse un telefono speciale. |
Peppina era ancora una bella donna, considerata l'età; il suo corpo sempre avvolto da un corsetto, lasciava a malapena percepire un'incurvatura da vedova nobile, i suoi capelli ondulati e tinti di un grigio acciaio erano tenuti sempre perfettamente in ordine da un'invisibile retina annodata sulla nuca. Portava orecchini d'oro nei lobi forati, il suo viso era un pochino cadente ma l'incarnato rosa e bianco rimase intatto fino alla fine. Peppina indossava massicce scarpe nere stringate e camminava con un passo fermo e sicuro. Anche da ottantenne volle recarsi costantemente da Excelsior a North Beach, attraversando tutta San Francisco con i mezzi pubblici. Per lei era fondamentale fare la spesa laggiù. Acquistava soprattutto cibi e liquori importati, regali e cartoline scritte in italiano perché "tutto quello che proviene dall'Italia è di qualità superiore". Abbiamo festeggiato insieme alcuni dei nostri compleanni, i suoi, quelli di mia mamma e i miei, ogni volta che riuscivo ad accompagnare mia madre da Menlo Park a San Francisco. Peppina ci offriva sempre il vermut dolce italiano in bicchieri piccoli e profondi e spesso dei dolcetti italiani da gustare con il caffè. Insieme al caffè, metteva in tavola una bottiglia di eccellente cognac. "Aggiungetene un po' nei vostri caffè, signore, io ne ho messo un cucchiaino nella mia tazzina, mi fa bene al cuoricino". Forse aveva ragione perché il suo piccolo cuore ebbe una lunga vita. Peppina - Giuseppina - morì nel 1976 all'età di novantun anni. Il suo necrologio fu scritto sul San Francisco Examiner, dove fu chiamata Josephine, il nome con il quale l'avevano sempre chiamata alla Levi-Strauss. |