La fattoria

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Non ricordo un momento della mia vita in cui la famiglia Sanchietti non vi abbia preso parte. In un'ingiallita istantanea del 1926 muovevo i miei primi passi, su gambe ancora poco stabili, nel terreno ghiaioso della loro fattoria. Fino a metà della mia adolescenza il viaggio più lungo che affrontai fu quello con mio padre e mia madre, dalla nostra casa di San Francisco al rancio delle galline di Santa Rosa. Gigi e mio padre si erano conosciuti nel loro paese in Italia quando Gigi e sua moglie Filuma emigrarono a San Francisco, dopo la Prima guerra mondiale, lasciarono il loro bambino Agostino ai nonni e non lo rividero fino al 1927. Durante quei primi anni, risparmiarono a sufficienza per consentire anche ai tre fratelli di Gigi di emigrare. Nel 1919 acquistarono un vigneto di quaranta acri, un terreno che avrebbe visto notevoli cambiamenti e che avrebbe garantito il benessere a tre generazioni di discendenti. Durante quel primo anno al ranch, Gigi mandò a mio padre il denaro e le carte necessarie per la sua immigrazione in America, per raggiungere gli altri fratelli Sanchietti a North Beach. Papà arrivò nel 1920 e Gigi rappresentò per lui una figura paterna, malgrado tra loro ci fossero solo dodici anni di differenza.

 

Mio padre gli restituì il prestito, poi provvide al viaggio di mia madre, che arrivò negli Stati Uniti meno di un anno dopo. L'eterna amicizia tra i due uomini aveva radici profonde e venne condivisa anche dalle rispettive mogli e in seguito dai loro figli unici: Gus e io. Gus era il fratello maggiore che non avevo mai avuto. Avevo due anni quando, nel 1927, il padre di Gus (per lui uno sconosciuto) intraprese il viaggio per portarlo in America. Gus aveva quattordici anni e le nostre esperienze di vita erano completamente diverse, come a volte lo sono le vite di fratelli e sorelle, eppure avevamo entrambi la percezione di quanto fossero simili i valori dei nostri genitori e la consapevolezza dell'eredità che avremmo condiviso. Molto tempo dopo la morte di Gigi e Filuma, fu solo attraverso Gus che rimasi legata a una vita contadina in Italia che non ho mai vissuto e che non esiste più. Ciò che davvero esiste nella periferia di Santa Rosa, sulla strada che conduce a Sebastopol, era un Vecchio Mondo in miniatura. Andavamo là diverse volte l'anno, papa scriveva a Gigi che saremmo arrivati oppure era Gigi a scrivere "Le mele (o le pere o le prugne) sono mature, vieni a prenderne un po'".

 

Le telefonate erano molto rare e rapide, Gigi ci chiamava da un telefono a gettoni del paese quando era indispensabile, "La casa è quasi pronta per essere intonacata, quando puoi venire?" Gigi non era abituato al moderno lusso del telefono, lo usava in modo telegrafico più che per una conversazione. Luigi e Filomena (nessuno li chiamava così, loro erano Gigi e Filuma) non venivano quasi mai in città; non furono mai invitati né da noi, né dei nostri vicini paesani, neppure in occasione di matrimoni, funerali, battesimi e diplomi, perché sapevamo quanto fossero vincolati dal lavoro alla fattoria che non ci aspettavamo di certo che sarebbero venuti. Quando li andavamo a trovare, per poter stare insieme, svolgevamo i lavori insieme a loro. Si liberavano in fretta della gente di città che pensava di rilassarsi lì la domenica, godendosi l'aria e il sole della campagna per ritornare a San Francisco con i doni della campagna. ''Mangiate" diceva Gigi mentre eravamo a tavola "in campagna non costa niente' prendendosi gioco di quei visitatori che venivano lì credendo di poter sbafare.