Filuma |
La mia educazione sessuale alla fattoria iniziò molto prima dell'arrivo di Anne. "Controlla bene che quando ti spogli Agostino non sia nei paraggi" mi disse Filuma quando avevo dodici anni "ora che stai diventando una ragazza". Eravamo al piano di sopra, nella lavanderia, dove quando ero piccola la mamma era solita lavarmi nella tinozza. Ad eccezione del sabato sera, quando ci si lavava nel bagno, gli altri giorni si usava la lavanderia anche se si aveva la necessità di cambiare solo parte della biancheria. Filuma continuò: "Presto ti verrà il sangue" poi non ricordo cos'altro cercò di spiegarmi gentilmente ma in modo così maldestro e pasticciato che fui tanto in imbarazzo da voler fuggire pur di mettere fine a quella conversazione. Avevo un irrefrenabile desiderio di piangere. "Sei rossa in volto, Lorraine, non aver paura, è qualcosa che succede a tutte le donne". Ero intimorita, ma non da ciò che lei mi aveva descritto sottolineando che sarebbe toccato anche a me, temevo lei avesse colto la mia finta innocenza e avrebbe poi raccontato alla mamma che io ero al corrente di molti dettagli; le ragazzine della mia età, infatti, si scambiavano ogni piccola informazione più o meno corretta, di cui venivano a conoscenza, eppure ero disperatamente imbarazzata all'idea di farne parola con qualunque adulto. In verità mia madre si sentì sollevata dal non dovermi parlare di certi argomenti, ma poco dopo mi consegnò ciò di cui avrei presto avuto bisogno. Il mio rapporto con gli adulti cambiò drasticamente; compresi che genitori e figli, madri e figlie, erano separati da un abisso. Filuma, che aveva poca esperienza come madre e nessuna come madre di una figlia femmina, non era certamente la persona più adatta a colmare quella voragine. |
Quando non fui più una bimbetta, mi vestii sempre senza pretese alla fattoria ma evitando pantaloncini e top che mi avrebbero lasciata scoperta sotto il sole della campagna e mi avrebbero assicurato la disapprovazione di Gigi. Anche Filuma si scandalizzava facilmente quando vedeva alcuni abiti di moda in quel periodo, indossati dalle clienti che venivano a comprare le uova: "La sua camicia era talmente corta che potevo vederle la pancia". Io avevo iniziato a mettere il rossetto i primi anni di scuola ma evitavo di farlo alla fattoria: sarebbe stata una cosa troppo sfacciata. Malgrado Filuma non fosse particolarmente espansiva, si preoccupava molto per me; passavo tanto tempo con lei, ero serena e a mio agio poiché mi accudiva proprio come la mamma. Avevo sempre dei compiti da svolgere. Mentre ci recavamo in macchina a Santa Rosa, la mamma mi diceva: "Aiuta Filuma' e io lo facevo sempre. La cosa che mi piaceva di più era andare con lei o con Gus a prendere le uova. Portavano vicino al pollaio un carretto di legno, carico di cesti vuoti, poi insieme scaricavamo due cesti all'interno, dove echeggiava il chiassoso chiocciare di centinaia di polli. Quel gigantesco pollaio era una stanza lunga, col pavimento ricoperto di paglia. Lungo il lato sinistro c'erano gli ampi posatoi; sulla parete destra, allineati uno sull'altro c'erano piccoli nidi fatti di leggerissima glumella di riso. Raccoglievamo le uova dirigendoci verso la porta, a volte dovendo persino scacciare una chioccia possessiva. Filuma era forte proprio come un uomo e riusciva a trasportare i grossi cesti carichi di uova. Era piccoletta e robusta, aveva braccia e mani ruvide e rovinate, ma il suo viso era liscio e dall'aspetto sempre fresco e appena lavato. Aveva lineamenti delicati e occhi blu, i capelli castani e ondulati erano piuttosto corti e raccolti con delle mollette; aveva forti denti dritti e bianchi e per me era un piacere osservare il suo sorriso o vederla addentare il cibo sempre con grande appetito. Mentre si avvicinava l'ora di pranzo, noi continuavamo ad occuparci di uno dei sei pollai. |
Quando Gus lavorava con noi, lui e Filuma stavano in pollai diversi, io aiutavo alternativamente l'uno e l'altra. Il carretto, parcheggiato sul sentiero e sempre più pesante dopo le numerose soste, veniva portato da Gus o da Gigi nella stanza delle uova, dove scaricavano i cesti e li coprivano con la iuta affinchè non vi si posassero le mosche. Tutto ciò si svolgeva mentre Filuma si affrettava a svolgere il suo compito successivo: la preparazione del pasto di mezzogiorno. Non c'era nessuna campanella né alcun grido di Filuma per avvisare che la cena era in tavola, semplicemente ognuno sapeva bene il ritmo della giornata e l'alternarsi delle attività. I pasti rappresentavano le rapide pause dedicate al riposo. Dopo pranzo, Filuma riassettava la cucina mentre Gigi saliva al piano di sopra per un breve riposino nella branda riservata ai sonnellini pomeridiani, oppure si metteva fuori a leggere il giornale. Naturalmente in lingua italiana. La Voce del Popolo arrivava da San Francisco con la posta. Filuma non sapeva leggere, si sedeva sulle scale di fronte al cortile o all'ombra del noce tra la casa ed il garage, sgusciando i piselli e mi diceva: "Leggimi il giornale Lorraine" e io lo leggevo. A volte pronunciavo le parole tentennando e senza capirne il significato, mentre Filuma era concentrata sulle notizie di cui altrimenti non avrebbe saputo l'esistenza e ammirava la mia capacità di leggere. Parlava un inglese elementare, appreso tramite i colloqui con i venditori, i compratori di uova, i braccianti che chiamavano a raccogliere la frutta e, durante la Grande depressione, e con i disoccupati che girovagavano in cerca di un impiego o di cibo. Quando stava fuori in un punto della casa da cui riusciva a vedere la strada, rimaneva a osservare il passaggio delle auto. "Ecco Trombetta che va a distribuire il latte a Santa Rosa", "Quella è la macchina di Nick, sicuramente sta andando da sua sorella", "Quella macchina che sta entrando nel vialetto di Pep e Mary sembra quella di un venditore che conosco". |
Filuma usciva raramente, solo quando Gigi la portava in città per l'acquisto di abiti o per qualche commissione che non era in grado di svolgere da solo. Indossava abiti a maniche corte e sopra un grembiule per i lavori domestici o nella fattoria e quando faceva freddo, si metteva anche una camicia da uomo o un maglione abbottonato; quando invece il sole era cocente indossava un cappello a falda larga. Le sue calze, sempre di un cotone resistente, erano sorrette da una giarrettiera o dal corsetto. Tutte le amiche italiane della mamma indossavano un corsetto (anche Filuma) il cui corpo tonico non avrebbe certamente avuto bisogno di quel sostegno o costrizione. Non aveva vestiti della domenica, non ne ebbe bisogno fino alla vecchiaia, dopo la morte di Gigi, quando fu libera dalle imposizioni del marito e da uno stile di vita di altri tempi. Gus aveva la responsabilità di tutta la fattoria all'epoca, ma pur non apportando immediatamente cambiamenti drastici, finalmente affidò la gestione dell'allevamento e delle uova a una cooperativa di pollame, così da rendere il lavoro molto meno pesante. Con Gus alla conduzione, la fattoria mutò e dalla produzione di uova, iniziò a dedicarsi alla coltivazione degli alberi da frutto. Comprò appezzamenti di terreni circostanti per espandere i frutteti e aggiunse magazzini dotati di impianti termici per mantenere freschi gli ambienti e conservare meglio mele e pere. Filuma, che assecondò il nuovo capo della fattoria, si dedicò sempre di più al suo orto e alla casa. Iniziò a indossare i blue jeans. Talvolta aiutava nei lavori ma non fu più lei la responsabile. Era sempre stata una donna piena di energia e di salute ma col passare degli anni fu colpita dall'artrite alle ginocchia e i jeans evidenziarono che le sue gambe erano diventate storte e, piano piano, la sua andatura si fece tentennante. Filuma rimase vedova nel 1946, a cinquantacinque anni e il suo mondo cominciò a poco a poco a cambiare. |
Anne e Gus la portavano alla messa domenicale nella chiesa di St. Michael a Se-bastopol, e riceveva molte più visite alla fattoria ora che suo figlio e sua nuora erano meno impegnati col lavoro e con i bimbi che stavano crescendo. Filuma andava con Anne nei supermercati e nei grandi magazzini se ne aveva voglia, altrimenti faceva una lista di ciò che Anne le doveva portare. Prese ad andare in vacanza a Menlo Park, dove si erano trasferiti mamma e papa, arrivando con il bus a pochi isolati da casa. Solitamente vi trascorreva una settimana, senza fare nulla di più entusiasmante che andare a far visita agli amici, imparare nuove ricette, assaggiare nuovi cibi e pranzare con mamma al centro commerciale per gustare i veri hamburger americani. Assieme ai miei genitori, mi veniva a trovare prima nella casa di East Palo Alto e, in seguito, in quella sulla collina di Palo Alto. Preparavo loro qualcosa da mangiare oppure passavano solo per un saluto, gli incontri furono sempre informali e lei rimase per sempre parte della mia famiglia, tanto quanto mia madre e mio padre. Papa andava in giardino a fare qualcosa, oppure lasciava lì le donne e tornava a prenderle più tardi. Mentre io mi occupavo di una o di tutte tre le mie figlie e delle loro amiche, la mamma e Filuma ripiegavano i pannolini o lavavano i piatti. A volte mettevo loro da parte i trenta paia di calzetti da abbinare e ripiegare che si ammucchiavano settimanalmente nel mio cesto della biancheria. Filuma andava a trovare i miei genitori periodicamente, almeno una volta all'anno. Le piacevano queste pause lontana dalla fattoria, eppure non riusciva a liberarsi dall'orologio. Ovunque fosse si sentiva vincolata dall'ora o dal giorno perché era abituata a dover sbrigare mansioni in giorni ed ore prestabilite: rifare i letti, spolverare, innaffiare i pomodori, mettere a bollire l'acqua, sempre con la sensazione e con la costanza di chi subisce una sottile pressione. Nella sua permanenza più lunga a Menlo Park - cinque settimane nell'autunno del 1959 - si assunse tutte le responsabilità dei lavori domestici. |
Papà stava morendo di cancro e mamma gli promise (e giurò a se stessa) che se fosse stato possibile, si sarebbe presa cura di lui a casa. Io desideravo fortemente aiutarli, avrei voluto lasciare Mac e le bambine per il periodo in cui avremmo potuto ancora parlarci in quei pochissimi giorni rimasti e che trascorrevano rapidamente, ma mamma e papa erano stati, fino ad allora, i nostri indispensabili babysitter. Ora mi era possibile lasciare le bambine per brevi periodi con i vicini, o portarle con me, oppure potevo recarmi dai miei solo alla sera, dopo che Mac rientrava dal lavoro. Era confortante sapere che Filuma garantiva quell'aiuto indispensabile. Lei fu con noi anche quando, il 5 novembre, papa morì in camera sua, come gli era stato promesso. Le visite di Filuma a Menlo Park continuarono per molti anni. Ormai erano entrambe vedove, e nonostante Filuma avesse sette anni in più, lei e la mamma invecchiarono insieme. Indossavano i loro grembiuli la mattina dopo essersi vestite e li toglievano solo per uscire di casa. Sapevano convivere con le abitudini e i difetti reciproci. Si beccavano quando Filuma voleva spolverare perché era sabato o quando la mamma voleva andare in chiesa senza aver lavato i piatti della colazione, ma si comprendevano a fondo per ciò che riguardava la gestione della casa: la pulizia, il riutilizzo degli avanzi e la condivisione dei doveri. Filuma visse da sola nella sua grande casa per tre decenni. Gus e Anne abitarono nella casa che mio padre li aveva aiutati a costruire l'anno in cui si sposarono. Vivevano a una distanza che si poteva colmare con lo sguardo e con la voce: li separava infatti solo il vialetto imbrecciato che condividevano e i nipoti abitavano quasi in entrambe le case. |
Una mattina non vedendo Filuma, Anne la cercò e la trovò nella lavanderia tra la vecchia lavatrice Maytag e i secchi, mentre brontolava e strappava i suoi vestiti. Era circa la metà degli anni settanta e Filuma aveva più di ottant'anni. Passò i successivi dieci anni in un ricovero per anziani a Sebastopol. Quando io e la mamma l'andavamo trovare, vedevamo solo una vecchia signora impazzita ed imbottita di sedativi. Aveva i denti marroni spezzati, le briciole intorno alla bocca e i capelli sempre in disordine, neppure il viso era riconoscibile. Non parlava con me, ma di me, come se la mia presenza le evocasse ricordi fino ad allora sopiti. Pronunciava nomi che conoscevo bene: Carlo, Annie, Mac, Lorraine, le ragazze, (le mie figlie) ma in frasi senza senso. Morì nella casa di riposo nel 1985, a novantatrè anni. Guidai per quasi cento miglia, da Palo Alto a Sebastopol per essere presente al suo funerale con la mia mamma ottantaseienne seduta a fianco a me e mio zio Vincenzo sul sedile posteriore. La mamma viveva ancora da sola, il suo spirito d'indipendenza la sostenne sempre. Alzava a malapena i piedi quando camminava, le sue articolazioni si muovevano poco e a fatica, eppure non aveva preso in considerazione neppure per un istante l'idea di non partecipare a quel funerale. Avevo calcolato male il tempo che ci sarebbe voluto per arrivare, tanto che credemmo di non fare in tempo a vederla nella camera mortuaria, ma per fortuna alla fine riuscimmo. La morte le aveva ridonato il viso che avevo sempre conosciuto. Nei dieci anni precedenti mi era sembrata un'estranea e mi rincuorò che fosse tornata a essere la mia Filuma, quando la vidi per l'ultima volta. |